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Ecco come può cambiare la vita accompagandoti a mettere in pratica ciò in cui hai teoricamente creduto
Il 30 Novembre 2019 la Farmacia, dove ho lavorato per più di 20 anni, ha cambiato gestione. Ho scelto di non restare. Ho salutato un lavoro full time a tempo indeterminato con orario fisso 8,30-12,30/15,30-19,30, cinque giorni su sette, chiusura infrasettimanale il mercoledì.
Perché?
Ho avuto il desiderio profondo di confrontarmi con un differente modo di vivere. Ero stufa dell’orario fisso. Non per via dell’orario, ma per quello che comportava. Mettere la sveglia sempre alla stessa ora, percorrere una delle tre varianti di strada che mi permettevano di raggiungere il mio posto di lavoro da casa mia.
Alzare la serranda del negozio dopo aver fatto partire tutti i computer ed acceso il registratore di cassa.
Il telefono che squillava in continuazione.
Gli appuntamenti con i rappresentanti ogni due o tre mesi per il rifornimento sistematico.
Gli stessi gesti ogni giorno per più di vent’anni. Volevo uscire da una modalità. Una modalità che per tanti anni mi ha rassicurata, mi ha dato serenità e mi ha tranquillizzata. Una sorta di coperta di Linus.
Non avrei potuto operare questa scelta anche soltanto 5 anni fa. Perché non avevo una solidità tale da potermi immaginare sganciata dalla sicurezza senza provare una sensazione di timore e spavento. Potevo andare in giro per il mondo, ma d’estate, in vacanza, sapendo che poi sarei tornata. Avevo bisogno di un contenitore e di sapere che c’erano delle sponde cui aggrapparmi e in grado di proteggermi dalle eventuali cadute.
Coraggio e paura
Da dove arrivava tutta quella voglia di certezze?
È un modus vivendi della mia famiglia, certo, è stato anche un prolungamento della sensazione di avere qualcosa di solido attorno, come il busto ortopedico che mi ha sostenuto e contenuto dai miei tredici ai miei diciotto anni, ma forse c’era qualcosa di più. Tutto ha iniziato a colorarsi di sfumature differenti quando ho smesso di credere che il coraggio fosse l’opposto della paura. Finché ho avuto fissa l’idea che il coraggio potesse aiutarmi a superare le mie paure, ho creduto che “azioni coraggiose”, di qualunque genere dalle più semplici alle più articolate, potessero aiutarmi a cambiare quelle parti della mia vita che andavano strette. Dopo essermi procurata tante prove di coraggio per superare ossia aver nutrito le tantissime paure che avevo, e che in parte ho ancora, ho capito che mi stavo sfidando. E quanta fatica c’è nella sfida, quanto dispendio di energia, per un risultato che se va bene provoca una botta di endorfine, se va male amplifica all’ennesima potenza la paura.
Allora mi sono accorta che il coraggio è una possibile reazione alla paura, non la soluzione della stessa.
Utile quando serve, ma non la chiave di volta. Così in quei cinque anni prima della vendita della farmacia ho scoperto che l’unico modo che avevo per non essere schiacciata dalla paura era diventare più grande della paura ed accorgermi che lei era un pezzetto di me, esattamente come la gioia, la tristezza, la dolcezza, la rabbia, il dolore, l’affetto…Potevo non mandarla via quando arrivava, talvolta magari serviva un atto di coraggio, e la presenza della paura me lo ricordava, ma non occorreva sempre indossare i panni di super girl.
E mi sono accorta che potevo ascoltarla perché quando non serviva un atto di coraggio, lei mi stava dando un suggerimento riguardo a che cosa potevo esplorare, rinforzare, accogliere di me che invece rifiutavo e travestivo di abiti che non mi appartenevano fino a non riconoscermi più. Ecco mi invitava a diventare più grande di lei per poterla contenere, non per doverla sconfiggere. Poteva diventare un’alleata.
Ho iniziato a chiedermi: “Cosa c’è sotto la paura”?
E come un piccolo esercito sono venute alla luce tantissimi fantasmini che la connotavano.
Non era paura e basta, ma paura di…
Ecco lei mi poteva presentare quei personaggi che si nascondevano dietro alle sue lunghe vesti. Quei personaggi si presentavano a me sotto forma di ricordi di episodi di me bambina, a volte erano vergogna, a volte erano rabbia per non avercela fatta, a volte erano condizionamenti sociali, famigliari, scolastici…
Ora però riguardavo le proiezioni su quello schermo, con una lente del tutto differente. Le parti che tremavano di fronte a lei, non erano da buttare, ma da accogliere e curare con più amore.
D’altra parte, se incontriamo una bambina spaventata che cosa facciamo? La abbracciamo e la conteniamo col nostro corpo per darle coraggio e non farla sentire sola. Ecco così stavo facendo io con la mia parte bambina spaventata. Chiedevo alla Carola grande di accoglierla.
Stavo imparando a diventare più grande della paura. L’avevo studiato, ripetuto e ci credevo davvero, ma ora lo stavo sperimentando!
Che cosa è successo dopo?
Il 2019 è finito in modo strano: senza lavoro, senza orari, senza la necessità di dover fare qualcosa di preciso minuto per minuto. Era come visitare un museo. Tutto mi sembrava un’opera d’arte. Non avere doveri mi stava mettendo di fronte alla possibilità di scegliere che cosa volevo fare.
Facile? Per nulla!
Mi si aprivano delle incongruenze enormi tra “il dire ed il fare” che la vita preordinata ed indaffarata della fase full immersion in farmacia aveva nascosto. Camminare sempre un passo indietro ai miei doveri mi lavava la coscienza dall’essermi allontanata dal mio IO grande.
La mia personalità era zelante, encomiabile, acclamata, come una diva sotto i riflettori: “Com’è brava Carola non ha nemmeno pranzato per portare a termine il lavoro!”. Certo la pappa per l’ego sostituiva egregiamente il pranzo.
Ma ora che avevo spento i riflettori per intraprendere un cammino differente ecco che si affacciava un interrogativo pulito ed schietto: “Quanto credevo in me e nella mia professionalità come operatrice olistica, ora che mi ero messa nella condizione di vivere proprio di questo, senza il paracadute del mio stipendio fisso?”.
È arrivata Paura, certo che è arrivata, era diventata un’alleata!
Ero io trasformata, e dopo un primo, secondo ed anche terzo disagio da parte mia, ma non più la fuga, l’ho fatta sedere ed abbiamo parlato. Se era venuta fin da me che si raccontasse allora!
Accorgermi che non “osavo” parlare di me e sponsorizzarmi al di fuori del canale farmacia è stato un duro colpo. La mia personalità era stizzita. Ma se mandiamo avanti il nostro IO grande, che conosce e prepara la strada per il nostro io piccolo, allora cambia la prospettiva e non si aspetta più il riconoscimento di tutti per poter andare avanti. Bensì si cammina, magari anche a tratti incerti e goffi, seguendo il proprio percorso, fatto di tante possibilità e non di un’unica via.
Che cosa cambia? Tutto!
Se ho un’unica via è come avere un’unica freccia al mio arco, ho una sola possibilità di centrare l’obiettivo, ho una sola via percorribile e tutte le altre diventano e non sono, automaticamente sbagliate.
Ed il passo da “è sbagliata una scelta” a “sono sbagliata io che l’ho operata” è immediato.
Non esiste una “possibilità sbagliata”, ma una possibilità che non mi rende più felice.
Il metro di tutto ciò per me dovrebbe essere il sorriso.
Quello che sto vivendo mi fa sorridere? No? Allora cambio perché non è la strada per me, magari lo è stato fino ad un momento prima ed ora non lo è più. Spesso ci infiliamo dentro una sola possibilità e crediamo di essere delle “brutte persone” se non la sosteniamo fino in fondo, anche quando ci accorgiamo che non ci rende, o che non ci rende più felici. Optare per una differente possibilità ci fa sentire dei falliti, come se abiurassimo la prima, e la tradissimo. Invece se non cambiamo tradiamo noi stessi.
E quindi?
Sono tornata a bomba ed ho riconsiderato quella frase di qualche riga fa:
Accorgermi che non “osavo” parlare di me e sponsorizzarmi al di fuori del canale farmacia è stato un duro colpo.
“Chi parlava di me allora durante tutto il periodo trascorso in farmacia?” IO. Non era la domanda “efficace” da pormi.
Trascorreva Dicembre, le feste di Natale, lo smaltimento della fatica di chiudere un’attività e di fare tutti i passaggi di consegna si facevano sentire.
Io avevo affidato un’altra questione:
“Che cosa mi consentiva di parlare di me quando ero in farmacia?”
Il contenitore. Le sponde di sostegno. Accorgermi di quello mi ha fatto riconsiderare la necessità di un sostegno che poteva essere dentro di me e non fuori di me.
Che cosa mi sosteneva? Essere limpida, e non scendere a patti con me stessa. Dichiarare ciò che ero e poi trovare col resto del mondo un terreno di compromesso. Il che non abiura nulla di me, perché non è sempre necessario esprimersi nella propria totalità, ma la parte che si esprime può essere coerente con quella che non si manifesta.