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Soppiantare una cattiva abitudine
Da ragazza credevo che soppiantare una “cattiva abitudine” con una “buona abitudine” fosse una conquista, un valido sistema per raggiungere maggior consapevolezza di sé.
Riflettendoci ho compreso quanto questo pensiero fosse un inganno della mente, un espediente per credere di aver compiuto una trasformazione senza in realtà aver modificato nulla rispetto a prima.
Era il solito modo di operare della mente per intessere la rete dualistica del giusto/sbagliato, buono/cattivo, adeguateo/inadeguato… nella cui trappola ero caduta a piedi pari.
Imparare a riconoscere quando siamo immersi nell’ottica dualistica, non è semplice né immediato, e sopratutto è un percorso.
Come in ogni altro percorso si possono incontrare insidie, trabocchetti e finte oasi, come il miraggio dell’acqua nel deserto, per cui scoprire di essere caduti in trappola è ottimo perché consente di uscirne e fornisce ottimi strumenti per riconoscerla e poterla evitare la volta successiva.
Inoltre è altrettanto vero che solo “facendo” si scopre cosa si sta facendo e come farlo. Perciò si può iniziare a considerare gli errori come “punti consapevolezza”.
Trucchetti della mente
Quando ho scoperto il trabocchetto mi sono incuriosita ed ho iniziato ad indagare. L’abitudine è uno dei trucchetti della mente per farci credere di avere il controllo su ciò che agiamo o viviamo.
La solita strada, la solita compagnia, il solito bar, il solito giornale, il solito taglio di capelli, il solito caffè lungo, la solita pizza… La parola abitudine origina dal latino habitudo-dĭnis, a sua volta derivato dal vocabolo di habĭtus-us = abito —> ossia qualcosa che si indossa e che, a forza di indossarlo, si può sentire come “una seconda pelle” o addirittura, tanto è comodo, non rendersi più neanche conto di averlo addosso.
Perciò avere o coltivare, come spesso si sente dire, un’abitudine significa non essere consapevoli di ciò che si sta facendo e continuare a farlo senza rendersene conto. Ciò implica la perdita del legame con la motivazione che ci spinge a compiere una determinata azione, con l’amore per ciò che si fa ed il piacere che proprio quella specifica azione e non un’altra comporta.
Che cosa soddisfa l’abitudine?
L’esigenza della mente di avere tutto sotto controllo. E noi sappiamo che cercare avere tutto sotto controllo comporta una gran fatica, ci impedisce di fluire nel fiume vita ed il piacere di farlo.
Se l’abitudine diventa il mood con cui affrontiamo le nostre gironate ci stiamo chiedendo di vivere come un robot. Ed anche della parola robot è importante conoscere l’etimologia. Essa deriva dal sostantivo cèco “Robot” che deriva a sua volta dal vocabolo “Robota” = lavoro, con cui lo scrittore cèco Karel Čapek denominava gli automi che lavoravano al posto degli operai nel suo dramma fantascientifico R.U.R del 1920.
Perciò se crediamo di renderci liberi indossando i panni dell’abitudine ci stiamo tradendo su tutta la linea, perché invece ci stiamo rendendo automi, ossia macchine, e le macchine non hanno un’anima.
Non accorgersi di essere abitudinari significa vivere spegnendo il contatto con l’anima.
Ma vivere a pieno, fluire nella vita, essere nel presente non è forse l’esatto contrario?
Credere di poter coltivare una sana abitudine è un non-sense perché non esiste una sana ed una cattiva abitudine, esiste soltanto l’abitudine. Allora se proprio vogliamo aggettivare la parola abitudine forse potremmo usare l’aggettivo “utile”.
Ugualmente agire un’abitudine utile, non significa che si compirà un’azione con e per amore, provando piacere, ma almeno non si cadrà nel trannello di credere che se si mette in essere una sana abitudine allora si è una buona persona.
Ugualmente l’abitudine, anche se definita utile, “mi agisce” e mentre lo fa io sono addormentato/a, non ho voce in capitolo. Ugualmente vivo la “possessione” dell’abitudine, ma forse l’aggettivo utile potrà risvegliare in me una domanda: “Utile a chi, a che cosa?“.
Abitudine: utile a chi, a che cosa?
Porsi questa domanda è il primo passo per decidere se tenere oppure no un’abitudine e decidere quando agirla e quando invece non robotizzarsi.
Portare la macchina, dopo che si sono appresi i rudimenti della guida, può essere un esercizio di presenza se si osservano tutti i passaggi che si effettuano al volante, oppure può essere fatto automaticamente mentre si conversa col passeggero di fianco.
Che cosa cambia? Se mentre guido sto attento alla guida e vivo l’esperienza del guidare, farò più attenzione, vedrò il variare del paesaggio attorno a me, mi accorgerò dei rumori dell’auto, sceglierò se frenare o accelerare spinto da una motivazione di cui sarò consapevole, mi accorgerò immediatamente delle mie esigenze fisiche senza dover aspettare di dover cogliere i segnali di affaticamento a stadio avanzato. La mia sarà una guida in presenza.
Spesso chi dice di rilassarsi alla guida è perché guida in presenza.
Scegliere di compiere un’azione in presenza o mettere in campo l’abitudine ci fa compiere lo stesso gesto con un’attenzione, una presenza, una consapevolezza del tutto diverse.
L’importante è accorgersi di come si sta agendo nella vita, solo così si potranno apportare delle trasformazioni.
Scegliere di non farsi agire dall’abitudine significa dire no alla meccanicità, al controllo, alla fatica mentale che comporta l’esigenza della prevedibilità. Tutto ciò fa vivere nella sofferenza dovuta alla mancanza di piacere.
Se invece si sceglie di non farsi possedere dall’abitudine, allora si lascia spazio all’affidarsi, al fluire, alla meraviglia di incontrare il nuovo, all’ascolto della sperimentazione, di qualunque tipo essa sia.
Da dove partire? Si può iniziare ad osservare come si parla e come ci si parla, e contemporaneamente passare dal corpo, dalle sue contratture, dai suoi segnali di dolore, dai suoi tic, dalle sue esigenze. Il corpo è la nostra cartina di tornasole del presente. Il corpo sarà la tua mappa.
Hai bisogno di aiuto per leggerla? Vuoi provare a scoprire quali abitudini ti agiscono?
Foto di Lars Nissen da Pixabay