Riflessologia Facciale Italiana – AIRFI
04/11/2021Cinzia
24/11/2021La contaminazione: ecco come personalizzo i miei trattamenti
Tutto ciò che ci forma passa attraverso l’esperienza. Infatti, prima di proporli agli altri, ho sperimentato su di me, come cavia, gli effetti dei FIORI di BACH, la leggerezza che lascia nel cuore un percorso di COUNSELING, l’elasticità che raggiunge il corpo grazie allo YOGA o all’ANTI-GINNASTICA, l’efficacia della RIFLESSOLOGIA.
Tutte queste tecniche e/o discipline sono entrate a far parte di me perché le ho mangiate e digerite, ed ora fanno parte di me. La pratica mi ha permesso di imparare il linguaggio delle varie discipline e di esprimermi usandone le varie sfumature ogni volta che ne senta la necessità durante uno dei miei trattamenti.
Ecco perché mi piace definirmi un’artigiana del corpo con licenza di contaminazione.
Quindi come lavoro Io?
- La CENTRATURA come predisposizione all’ascolto
- L’ACCOGLIENZA di sé e dell’altro
- Restituire nel vocabolario attivo del cliente la parola: SCEGLIERE
- RI – UNIONE mente e corpo
- Le DOMANDE APERTE ed i SIMBOLI
- COMUNICAZIONE o diventare gli sceneggiatori del nostro film
- IDENTIFICAZIONE DELLA PRIMARIETA’
- DARSI IL PERMESSO
La CENTRATURA come predisposizione all’ascolto
Innanzitutto mi centro. La centratura è stato uno dei capisaldi della scuola di counseling. Per porsi in ascolto dell’altro occorre silenziare la radio interiore. Allora si crea un canale d’ascolto che prende il nome di ascolto empatico. Ci sono varie tecniche, tra le quali imparare a sintonizzarsi sul proprio respiro per accorgersi di ciò che si sta provando in quel momento. Perché non siamo macchine con il tasto on – off. Possiamo chiedere gentilmente ai nostri pensieri di chetarsi, solo se riconosciamo l’emozione che li ha spinti a manifestarsi.
Essere centrati predispone perciò all’ascolto e intuitivamente l’altro se ne accorge e si permette di affidarsi. Inoltre quando si mettono i confini diventa chiaro che cosa appartenga al nostro interlocutore e che cosa invece appartenga a noi. Ecco perché per chi ha una buona centratura è possibile stare accanto a chi soffre senza portarsi a casa la sofferenza. E se si accenderà un richiamo, perché l’altro ha fatto da specchio, si saprà gestire il proprio dolore senza farsi carico di quello del mondo intero.
L’ACCOGLIENZA di sé e dell’altro
La centratura mi ha fatto pensare che quello spazio sacro interiore, poteva essere tradotto nel mondo esteriore in uno spazio sacro di accoglienza del ricevente. Ecco la seconda parolina magica: accoglienza. Mi posso predisporre all’accoglienza dell’altro se in prima istanza ho accolto me stesso/a. Accorgermi di che cosa provo, delle emozioni e dei pensieri che si muovono dentro di me, mi tranquillizzerà perché nessuna delle mie parti si sentirà esclusa e perciò separata. Se mi accolgo nella mia totalità, anche delle parti scomode, manterrò l’unità. Soprattutto come operatore del benessere, ma anche semplicemente come individuo, non posso pensare di offrire uno spazio di ascolto all’altro se rifiuto alcune parti di me, se non ascolto io per prima il canto di tutte le mie voci interiori.
Non posso sapere i gusti di chi incontrerò, ma posso offrire una serie di comodità. Mi piace offrire uno spazio che sia un contenitore, una stanza abbastanza grande, ma non dispersiva; la possibilità della luce e della penombra; sedute e lettini comodi ed accessibili; una temperatura che posso variare facilmente per adeguarla a chi ospito; musica; bevande; campane tibetane; candele; oli ed incensi a disposizione e non già attivi.
Sto dedicando spazio e tempo all’altro, sono io ad entrare nel suo mondo per quanto possa essere dissimile dal mio. Perciò non arrederò io quello spazio, ma inviterò l’altro a farlo.
Restituire nel vocabolario attivo del cliente la parola: SCEGLIERE
Voglio poter concedere all’altro la possibilità di scegliere, e magari anche di accorgersi di non averlo fatto per tanto tempo, o di non sentirsi capace di farlo. Voglio sostenere l’altro perché predisponga il suo sguardo verso di sé, ossia a ciò che vuole, e non più verso l’esterno, ossia a ciò che gli hanno insegnato a credere di volere. Come ci si accorge di sé, della propria interiorità? Percependo i messaggi del corpo. Ecco perché le mie domande spesso non sono rivolte ai massimi sistemi o a concetti astratti, ma riportano alla persona, al corpo della persona stessa, perché l’interiorità è dentro e possiamo riconquistarla. Accompagno le persone a riconoscere nel corpo la manifestazione del proprio mondo emotivo, e se sono arrivate a me, talvolta del loro terremoto emotivo.
Essere counselor e massaggiatrice mi porta naturalmente ad ascoltare i messaggi del corpo e ad aiutare il cliente a trovare le sue parole per tradurre quel simbolismo, per renderlo finalmente evidente laddove non lo si riconoscesse prima.
RI – UNIONE mente e corpo
Ri-unire mente razionale e corpo permette di ascoltare la voce dello spirito, di percepire l’intuizione, di riappropriarsi dell’immaginazione. Lo spirito è tutto quello che non sai ancora di essere, che sei in potenzialità e che le intuizioni ti invitano a diventare. Quando nasciamo siamo ancora un unicum ed impariamo progressivamente a separarci da esso, per poi poterci riunire ad esso. Sembra assurdo ma noi “conosciamo le cose” solo separandole, per poi ri-unirle.
Ri-congiungerci con tutte le nostre parti e ri-diventarne i legittimi possessori ci permette di far scendere in campo di volta in volta la porzione di noi utile, adeguata, funzionale, consapevolmente. Se mi serve la determinazione, ma non oso metterla in campo perché ho metabolizzato che è negativa e non esiste più il ponte che mi permette di raggiungerla userò un’altra parte di me che chiamerò determinazione, ma che in realtà non c’entra per nulla con essa. Magari sarà la forza, l’abnegazione, il senso del dovere… Risultato? Stanchezza, mancato rispetto dei miei confini, sensazione di soffocamento fino a veri e propri sintomi fisici.
Ecco perché è bella la definizione di counseling come costruzione di ponti che permettono di raggiungere tutte le parti dimenticate e lontane del nostro mondo interiore. Per farlo non serve spiegare, dichiarare, prescrivere rimedi come se ci fosse un farmaco con dosi e posologie predefinite. Ma far incontrare il cliente con le sue parti dimenticate, impolverate, messe in cantina.
Sono affezionata alla parola e non la sottovaluto, ed è sul podio con il corpo. Come? Attraverso le domande aperte.
Le DOMANDE APERTE ed i SIMBOLI
Domandare è il modo migliore per non interpretare e quindi per non appiccicare un’etichetta. In prima istanza chiedo all’altro di prestare attenzione ed accorgersi di “dove sente nel corpo” il disagio, la sofferenza, la matassa dolorosa che l’ha portato/a da me. La risposta non arriva quasi mai subito. Allora uso i simboli, ne prendiamo un numero sufficiente e ci giochiamo. Sia che stia per fare un colloquio di counseling o di Fiori di Bach, sia che stia per fare un trattamento corporeo. Il gioco è una cosa seria e permette di avvicinarsi all’analogia e di leggere il linguaggio simbolico.
Perché ci serve questo traduttore? Perché ci permette di rendere comprensibili alla mente ragionativa dell’uomo il suo stato d’animo evitando la mente. I simboli sono informazioni. Sono il mezzo attraverso il quale si rappresenta il mondo in modo universale (= senza confini), più efficace e facile da memorizzare. Le informazioni sono in un campo invisibile che ci circonda, in cui non c’è separazione. Per conoscerle e poterle gestire, senza diventarne vittime occorre attivare quel traduttore. Poi il linguaggio darà forma, struttura e significato ai pensieri. Ecco che ora possiamo rendere omaggio ad un’altra parolina magica…
COMUNICAZIONE o diventare gli sceneggiatori del nostro film
Dal Latino “cum= insieme” e “munis=incarico, ufficio, funzione”
La comunicazione può essere vista come il punto d’incontro tra un bisogno, l’idea astratta per soddisfarlo, e la manifestazione concreta di quell’idea. Per fare questo c’è bisogno di concretezza, di parole di subitanea identificazione. Mi piace usare i vocaboli nella loro accezione meno astratta possibile perché non si perda la loro realizzazione in atti concreti nel nostro vissuto quotidiano. “Vorrei una abitazione più confortevole” non ha riscontro nel campo di realtà, invece dire “voglio un divano morbido ed accogliente al posto di quello che ho, perché renderebbe la mia permanenza in casa più confortevole” manifesta un disagio, la percezione del medesimo, la possibilità di indagarlo in altri campi ed anche la possibilità concreta di risolverlo. Il linguaggio che usiamo crea la nostra realtà, ed il nostro futuro. Posso anche dire voglio una vita confortevole, ma se non so che cosa significhi per me non arriverà e se anche arrivasse non me ne accorgerei.
IDENTIFICAZIONE DELLA PRIMARIETÀ
La primarietà che si tratti di un sintomo fisico o di un sintomo emozionale è fondamentale perché ci riconduce al punto di origine. Trattare la causa scatenante permette di individuare e risolvere un problema, trattare le conseguenze invece fa mettere una toppa.
Faccio un esempio. Se dico “ho fame” è perché l’ho sentito nel corpo, l’ho portato alla mente e l’ho espresso a voce. Ossia lo affermo perché ho decodificato dei segnali corporei, e non ci ho nemmeno fatto caso e li ho tradotti in un pensiero coerente. In che modo? Da segnali fisici: crampi allo stomaco, sensazione di vuoto, sbadigli, mancanza di energia, occhi pesanti, livello dell’attenzione che cala, acidità.
Tutto ciò spinge ed attiva una serie di risposte plausibili, sceglie la più pertinente e frequente in base ai dati che ha e ci predispone alla fame. Quindi ci fornisce una serie di soluzioni per sfamarci. Attingendo a ciò che noi già conosciamo.
Non ci accorgiamo di tutti i passaggi e non è utile farlo sempre, ma è bene sapere di poter ripercorrere questi passaggi a nostro piacimento. Torniamo alla fame e chiediamoci che cosa l’abbia scatenata. Effettivamente la necessità di introdurre carburante, oppure la noia, oppure si è innescato un circolo vizioso e sto provando un’emozione che ritengo negativa ed ho imparato a tacitarla mangiando? Quando formulo una frase anche semplice come “Voglio un piatto di spaghetti” non sto solo ordinando un piatto al cameriere del ristorante, ma sto anche creando il mio immediato futuro in cui lo mangerò, e se voglio percorrere il processo di formulazione, ora posso. Ma per farlo occorre concederselo, e non è così scontato.
DARSI IL PERMESSO
Imparare a darsi il permesso di farlo che significa etimologicamente “per = per mezzo + mittere = lasciar andare” ossia abbandonarsi a qualcosa, invita ad entrare in confidenza con il proprio mondo interiore e ad abbandonare il vincolo che lo impedisce. Per poter trasformare una sofferenza dobbiamo in prima persona lasciar andare il gancio che ci trattiene ad essa. Che sia un dettame dell’educazione familiare impartita, o una regola sociale, o una paura che abbiamo vissuto da piccoli… dobbiamo essere disposti a non crederle più. Così facendo la libereremo dalla responsabilità di accudirci e cominceremo a farlo noi stessi.
Raccontato così potrebbe sembrare facile, ma quali sono state le mie difficoltà?
Riportare la ragione al suo posto togliendola dal podio da dove imperava. La ragione è utile, ma sopravvalutata. Serve per fare dei calcoli, sì, permette di calcolare mezzi e percorsi per arrivare ad un fine. Se voglio parcheggiare mi farà fare le manovre opportune, ma non sceglierà il posto dove sono andata. La ragione è obbediente e non decide bensì mette in ordine ciò che c’è già. Perciò possiamo avere ragione sulla base dei nostri schemi, dei dati che possediamo nel nostro computer mentale, ma sarà la nostra ragione, non estensibile a quella di qualcun altro, che va da sé avrà la propria, alimentata dai suoi dati personali.
Perché allora è così importante per noi avere ragione?
Chiedere a qualcuno di darci ragione non significa avere la stessa idea, come spesso si crede, ma chiedergli di avallare l’esattezza dei dati di qualcun altro, i nostri. La risposta allora a quella domanda potrebbe essere non “hai ragione”, ma “alla luce dei tuoi dati la tua logica è coerente”. Detto così però perde di efficacia. Non è più rassicurante. Sentirsi dire “hai ragione” viene recepito come “avallo i tuoi dati”. I nostri dati sono ciò che abbiamo raccolto nella nostra esperienza fin’ora, ossia nel nostro passato. Perciò avere ragione nel presente significa adattarsi al proprio passato. In qualche modo portare avanti la tradizione. Continuare a convalidare l’esperienza passata. E l’essere umano è refrattario al cambiamento perché lo espone al nuovo, lo mette in contatto con la paura, con le sue reazioni istintive e con la possibilità di mettere in discussione la tradizione.
Anche per me è stato un passaggio difficile, è stato come abbandonare la coperta di Linus. Ho fatto riposare la ragione, alla quale prima facevo fare gli onori di casa del mio mondo interiore, l’ho fatta sedere accanto a me e mi sono concessa di sperimentare un nuovo modo di essere e di vivere. Le nuove esperienze hanno portato nuovi dati su cui la ragione ha potuto rinnovare i suoi schemi.