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02/10/2023Le trappole delle ferite emotive
Cosa sono le ferite emotive
Esistono cinque ferite emotive che si sviluppano in età infantile: rifiuto, abbandono, umiliazione, tradimento e ingiustizia.
Sono associabili a specifici episodi della vita che si “cristallizzano” nella memoria dei bambini ed assumono talvolta l’entità di un “trauma”. Potremmo più semplicemente dire che alcuni accadimenti diventano il parametro di massima sofferenza che un bambino/a prova per la prima volta in un’età in cui non sa gestirla.
Il/la bambino/a teme per la sua incolumità ed adotta un comportamento che crede “salvargli la vita”. Infatti è bene ricordare che fino all’età di circa 5/6 anni non si sviluppa la corteccia cerebrale, ma l’essere umano essendo dotato di amigdala la usa seguendo il paradigma del suo funzionamento ossia le reazioni attacco/fuga in situazioni di pericolo.
Perciò di fronte ad un episodio di grande sofferenza il bambino, non può ancora ragionare ed allora usa l’amigdala, ossia “si salva la vita”, reagendo. Quella reazione diventa modello di comportamento, che a sua volta diventa una sorta di canovaccio, un copione da mettere in scena successivamente ogni volta che si avverta quel tipo di paura.
Come riconoscere le ferite emotive
Ogni persona durante l’età infantile entra in contatto e sperimenta tutte le ferite. Ossia risulta più sensibile all’una piuttosto che all’altra. Se ci pesate all’asilo avete tutti sperimentato la vergogna o il tradimento o l’abbandono… Ma qualcuno magari ride del suo episodio rigurdante la vergonga mentre un altro/a abbassa lo sguardo e si infiamma in volto perché quel ricordo gli/le riaccende ancora la primaria sensazione di dolore.
Sembra strano ma ogni volta che ci sentiamo in pericolo da adulti, rispetto al contenuto delle ferite sopracitate, agiamo ancora quel comportamento che ci ha permesso di sopravvivere e di sentirci protetti quando eravamo piccoli.
Le ferite è come se riverberassero energeticamente facendoci agire in un certo modo piuttosto che in un altro inconsapevolmente. Finché non lo sappiamo.
Perché conoscere le trappole delle ferite emotive
Serve a riconoscere quali sono le ferite attive dentro di noi.
Ad includerle nel nostro vivere quotidiano.
A smettere di credere che alcuni nostri atteggiamenti siano caratteriali come se fossero scolpiti nella pietra, una sorta di “tavola della legge della nostra personalità”, e perciò giustificati e giustificabili sempre e comunque.
Ad assumercene la responsabilità!
Come possiamo sapere di essere di fronte all’attivazione di una ferita emotiva
Ovviamente non c’è una ricetta, nè una regola matematica da applicare. Ma possiamo iniziare ad accorgercene, cioè ad osservarci rispetto alle nostre “reazioni”.
Cosa ci provoca a tal punto da dire “ho dovuto reagire”, per giustificare un nostro eccesso di comportamento? Cosa viviamo come provocazione: l’ingiustizia, la vergogna, l’abbandono?
Accorgercene ed osservare il nostro comportamento reattivo sono i presupposti per riconoscere quello che ci capita nella vita, per poter diventare empatici con noi stessi. Così da poter accogliere quel bambino o quella bambina spaventata, impaurita, che si sente “morire”, grazie alla nostra parte adulta.
Allora sarà la nostra parte femminile che si protende in un abbraccio e la nostra parte maschile che attiva la protezione per dare sollievo e consentire di placare le reazioni della bimba o del bimbo interiore. Non c’è bisogno di pensare che occorra liberarsene. Invece occorre di includere, trovare uno spazio accogliente, caldo e riparato per quella parte ferita di noi che ha solo voglia di riposo.
Quali sono le trappole da evitare
“Attenzione a non cercare dei colpevoli”
Per favorire l’inclusione potrebbe essere utile ricordare che noi siamo responsabili delle nostre ferite, anche se le hanno ingenerate episodi che implicavano la presenza di altri. Loro sono solo stati catalizzatori di un evento, doloroso per noi, non termini di assoluto. Perciò tocca a noi smettere di re-agire ed iniziare ad agire in modo differente.
“Attenzione all’innamoramento per la ferita”
Come dice molto bene Giorgia Sitta. Quando si inizia “il lavoro su di sé” talvolta si riamane incantati dalla ferita. Questo è per me il canto delle sirene di Ulisse. Le ferite hanno paura di lasciarci agire in modo differente perché attraverso quello specifico comportamento messo in atto da bambini/e pensano di salvarci la vita.
Diventare autonomi/e rispetto all’agire la solita modalità è mettere in scena una “piccola morte”. Saperlo può aiutarci a resistere, a fermarci in quell’attimo in cui avviene la consapevolezza dell’attivazione della ferita, così da poter scegliere di non re-agire il canovaccio, ma di agire un altro coportamento. Sarà un processo lungo, lungo tutta la vita.
Ma se scoprire di avere una ferita diventa il refrain della nostra esistenza e lo usiamo per difenderci, giustificarci, pretendere dagli altri un occhio di riguardo, diventiamo ostaggio della personalità, del piano mentale, che non ha interesse ad evolvere, perché non è il suo compito. Anzi usa questa informazione come pretesa di comprensione da parte degli altri e poter così restare sempre ugule.
Conoscere senza includere la bambina/o ed il suo dolore, e senza trasformare la reazione in nuova azione non è evolutivo.
“Attenzione alla paura del dolore”
Il cambiamento può essere doloroso soprattutto nella sua fase iniziale, perchè la personalità mette in atto delle resistenze. Ma la sofferenza si lavora entrando in contatto con la paura del male che può portare, non chiedendo di non farcene al prossimo che siano marito, sorella, genitori, amici, colleghi… giustificandosi col fatto di avere la la ferita.
Tutti hanno delle ferite emotive, che ne siano consapevoli oppure no. Anche il nostro interlocutore. Le ferite non servono per definirci, per descriverci. Possono NON diventare il nostro biglietto da visita? Sì, anzi è auspicabile! Perché altrimenti significa che mi sono identificata/o con la ferita. Esse sono sì parte di noi e lo saranno per tutta la vita, ma ciò che praticamente cambierà con l’osservazione e l’inclusione della sofferenza di cui sono cariche, sarà lo smettere di mettere in scena il solito canovaccio. E meno le agirò meno avrò sofferenza. Un buon modo per acquisire una nuova abitudine di comportamento.
“Attenzione a non credere di dover risolvere prima le ferite e poi manifestarsi al mondo”
Le ferite si lavorano vivendo, ad esempio se ho la paura del tradimento mi metterò in gioco nelle ralazioni: amorose, amicali, di conoscenza più superficiale, lavorative…. dove mi capiteranno delle possibilità di riaccensione della ferita e perciò anche la possibilità di scegliere di non recitare il solito canovaccio.
“Attenzione a non confondere le ferite con i talenti”
Il lavoro sulle ferite non significa cercare l’anti-ferita, come se ci fosse un antidoto. Ed addirittura scambiarlo per un talento, ossia – se ho la ferita del rifiuto devo sviluppare l’anti-rifiuto e quello diventerà il mio passpartout nel mondo, quasi un mio talento ritrovato. Le ferite sono il mezzo per poter lavorare su di noi in un processo di inclusione e trasformazione progressivo e continuo.
La cicatrice della ferita resterà fino alla fine dei nostri giorni. Quello che cambierà sarà la trasformazione della reattività del solito canovaccio in scelta consapevole di un altra azione. Le ferite perciò sono alla base della nostra evoluzione. Rappresentano il modo principale attraverso cui l’essere umano evolve aumentando la consapevolezza di sé e quindi il livello di benessere fisico-emozionale. Attraverso il percorso di trasfromazione delle ferite si arriva ad Anima che si manifesta attraverso il dono dei talenti. A volte immagino le ferite ed i talenti come una sorta di ombra/luce. Prima si riduce l’ombra che proietta una ferita trascurata, prima si potranno vedere i doni di Anima e li si potrà vivere.
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