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La visione dualistica: positivo o negativo, giusto o sbagliato
Per tanti anni mi sono ritrovata a considerare le emozioni esclusivamente nella visione comune dualistica occidentale, ossia credendo che la parte positiva andasse espansa e trattenuta, e di contro la porzione negativa andasse ridotta fino a farla scomparire.
Più cercavo di comprimere ad esempio l’aspetto negativo della rabbia, più lei saltava fuori in modo scomposto e dirompente, mettendo a ferro e fuoco tutto quello che trovava sulla sua strada.
Quando non ci riuscivo ecco che sopraggiungevano il senso di inadeguatezza e la convinzione di non essere abbastanza “brava, adeguata, capace, intelligenza“.
Insomma ero del tutto in linea con il codice morale/mentale occidentale che si basa sul senso di colpa e sul giudizio dualistico del giusto/sbagliato.
Allora mi sono fermata. Ho cambiato strada, andando verso l’integrazione, l’unione, l’inclusione.
Ho immaginato le emozioni come delle sfere che dovessero contenere anche la traccia dell’espressione negativa dell’emozione stessa, ma avvolta e placata dal suo corrispettivo positivo.
Anche questo modo di intendere l’emozione non si è rilavato efficace a farmi star bene. Certamente avendo smesso di negarne una parte non avevo più ad esempio eccessi d’ira, perché non la stavo negando, ma ero pervasa da una profonda tristezza. Qualcosa non funzionava ugualmente.
Ero triste perché la rabbia era annacquata, poteva esistere solo se ammansita. Come un animale in cattività. Vive, ma non si può esprimere.
Finché ho avuto un’intuizione: se la rabbia può manifestarsi come aggressività e scoppi d’ira funesta, d’altro canto rappresenta anche la fiammella del potenziale creativo, fino a diventare la possibilità di smettere di essere arrabbiati con la vita e consentire all’amore finalmente di manifestarsi nella sua totalità.
Spegnere la rabbia quindi aveva due risvolti negativi di grande impatto sulla mia vita: non alimentava più la mia creatività e mi allontanava dall’amore.
Ero pronta ad una nuova visione. Non volevo più separare le due componenti, anzi, contemplavo l’esistenza di entrambe nella mia sfera immaginaria come un moto fluido e perpetuo, senza credere di doverle soppesare e di poterne tagliare un pezzo, quello scomodo, magari proprio quello che faceva più paura alla morale comune e quindi anche alla mia.
Prigionieri di una credenza
Questa era una trasformazione grande e mi permetteva di deporre forbici ed accette con cui andavo in giro dentro di me per sfrondare la mia essenza smorzandola, limitandola, contenendola per adeguarla alla morale comune.
C’era però ancora un aspetto che strideva, che non mi faceva sentire fluida. Ci ho messo tanto tempo per accorgermene, ma poi ho individuato una piccola falla che imbarcava acqua. Mi accorgevo che qualcosa mi spingeva a cercare di acquisire delle qualità che credevo di non avere e delle quali credevo di dovermi necessariamente dotare. Alcuni aggettivi come sempre, mai, affatto, assolutamente, necessariamente dovrebbero far venire il dubbio di essere prigionieri di una credenza.
Infatti quando pensavo ad esempio alla paura, credevo di dover mettere in atto il suo opposto, ossia un atto di coraggio. Come fosse un esorcismo. Perciò mi invitavo a compiere gesti, pensieri, atti, coraggiosi, quasi a sfidare il pericolo per far venire meno la paura.
Ero ancora nella visione esclusivamente dualistica. Ero ancora invischaita nel tentativo di blandire la paura col coraggio per renderla diversa da quello che era. Ciò mi ha sorpresa non poco, perché avevo la pretesa di essere da un’altra parte, già risolta, e non lì dove effettivamente ero, in trasformazione.
Allora mi sono criticata il giusto, accusata quel tanto che basta e poi punita. Insomma ho messo in atto i principali metodi educativi che ci hanno insegnato a casa, a scuola, in società.
Poi sono ridiscesa sul pianeta Carola. Quando si ritorna dal viaggio nel mondo chiamato “metodi educativi terrestri“, si ritrova la capacità di ascoltarsi e porsi delle domande. Così si possono aprire nuove porte e sperimentare altri percorsi. Allora mi sono chiesta che cosa mi porta la rabbia. Mentre cercavo questa risposta Giorgia Sitta, splendida ricercatrice alchemica, durante un seminario a Pisa a luglio 2022, mi ha suggerito il concetto del semino.
Lo diceva anche Sergio Endrigo nella canzone “Ci vuole un fiore“, se hai voglia, prova a sentirla.
Le emozioni che proviamo ci raccontano chi siamo.
Se riusciamo a sospendere il giudizio ed a sentire affetto per la parte di noi che si sente prigioniera o vittima, possiamo fare un ulteriore passo, verso il benessere e la centratura. Infatti le parti che riteniamo “brutte” sono le nostre ferite ma sono anche la nostra chiave per evolvere. Ogni nostro limite, ogni nostro difetto, ogni nostra ferita, contiene in sé il seme della trasformazione.
Proviamo a trasformare un concetto che potrebbe sembrare astratto come: rabbia, paura, necessità in aggettivi riguardanti la persona, ecco allora che diventano: rabbioso/a; pauroso/a; bisognoso/a…
Come? Fai questo esercizio con me.
Ecco che laddove si poteva immaginare il terreno del dolore come arido, impervio, desolato, paludoso, o desertico a seconda della sensazione personale di ciascuno, ora invece si apre una nuova prospettiva.
C’è un giardino da coltivare dentro di noi. Ed i semini sono già lì da sempre.
Non esistono i semi modificati geneticamente, è tutta roba buona ed è tutta roba tua!!!
Ora hai un nuovo strumento di approccio al dolore.
Sarà facile? No. Ma sarà una bella esperienza.